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Il Tè delle Cinque Domande… con Giacomo De Rosa

svgAgosto 19, 2020INTERVISTEMarco Marzi

  • Ciao Giacomo, partiamo subito con una domanda scontata ma perfetta per rompere il ghiaccio; perché “Segnali di Fumo” come titolo del tuo secondo disco?

Salve a tutti. L’immagine dei segnali di fumo nasce dalle pagine di Tex Willer, fumetto che leggo sin dalla tenera età. Quanto al senso di questa immagine, mi piace pensare che in questi tempi confusi e sguaiati gli spiriti affini possano riconoscersi con delle forme di comunicazione segrete e misteriose, quali appunto queste mie nuvolette.

  • Nel tuo disco tratti la canzone d’amore e lo fai in modo davvero delicato, tanto che potremmo ritenerti uno “stilnovista moderno”; Sei toscano, d’altronde nelle canzoni d’amore ti senti più Guido Cavalcanti o Cecco Angiolieri? E nella vita?

Mi fai un grande complimento, “stilnovista moderno” è una definizione tanto meravigliosa quanto da me immeritata. Se devo scegliere un padre putativo, però, penso ancora più in grande e indico Dante Alighieri: quando incontro una possibile Beatrice, la “lingua deven tremando muta e li occhi no l’ardiscon di guardare”. Sono straordinariamente timido; anziché vivere l’amore, mi sento più a mio agio a scriverne.

  • Tre artisti (italiano, estero ed extramusicali) che devono essere seguiti secondo Giacomo de Rosa

Tra gli italiani consiglio Lucio Corsi, uno dei talenti più originali e cristallini in un panorama come il nostro, che soffre di una certa tendenza all’omologazione. Poi vado in Portogallo, con Salvador e Luisa Sobral, fratello e sorella capaci di creare canzoni di una bellezza quasi antica. Per l’artista extramusicale, mi rifugio in un familismo bieco e spudorato e suggerisco mio padre, Renato De Rosa, che ha appena pubblicato il suo nuovo romanzo, Osvaldo, per la casa editrice Carbonio.

  • Come ci si sente a provenire dalla provincia in una scena musicale italiana che sembra essersi polarizzata tra Milano e Roma?

Ci si sente abbastanza trascurati, per dire la verità. Ora, l’accentramento della vita culturale nelle città più importanti è un fenomeno caratteristico di tutta la storia umana, non ha senso aversene a male. Mi colpisce piuttosto l’autoreferenzialità di queste cerchie, l’incapacità di confrontarsi con panorami più grandi. È come se si accontentassero di sentirsi i divi di un piccolo palcoscenico. Eppure Paolo Conte abita in provincia e tutto il mondo ce lo invidia. Soprattutto i francesi.

  • Ci ha colpito molto la costruzione musicale di “Nuvole” atipica rispetto al resto del disco, “sudamericana” se ci passi il termine. Ci racconti come è nata?

“Nuvole” è nata precisamente sperimentando giri “brasileiri” sulla chitarra. La parte strumentale è nata prima del testo. Adoro la scena brasiliana, passata e presente, credo che abbia una straordinaria galleria di sfumature sonore ed emotive. A dirla tutta il Brasile è presente anche in “Dea dei misteri”, canzone che affianca un arrangiamento “elettronico” ad un’armonia stile bossa.

  • Siamo arrivati al momento dei saluti. Hai in programma di portare il disco dal vivo? Puoi anticiparci qualcosa?

Per quanto mi piaccia esibirmi dal vivo, era già difficile farlo prima della pandemia. Ora è persin peggio, senza contare che in provincia partiamo dieci passi indietro per quanto riguarda la musica live. In attesa che qualcosa si muova, mi consolo con Instagram, dove si riesce comunque a costruire una sorta di contatto con il pubblico, a farsi sentire, in qualche modo, a portata di mano.

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